Premessa:
Quando arrivarono le mie copie del cd del Declino "1982 - 85: Come una promessa" ne mandai subito una a Pietro HPL. A digiuno di quel tipo di musica, Pietro fu comunque molto colpito dalla musica e dai testi del Declino e mi chiese se eravamo disponibili per un'intervista, come dire, "postuma". Dicemmo di sì e poco tempo dopo lui ci mandò le domande e noi, individualmente, rispondemmo. Passarono i mesi, molti mesi. Il Declino [precisamente Silvio, basso; Mungo, chitarra e Orlando, batteria] si riunì dopo oltre vent'anni per un concerto (l'unico) al Bloom di Mezzago il 17 Febbraio del 2006: fummo presi dalle prove, poi dalla vita, poi da chissà cos'altro. Ora, finalmente e dopo così tanto tempo, ci siamo decisi a pubblicare l''intervista su questo sito. Pietro HPL non collabora più da tempo a Fumetti di Carta e non ho più contatti con lui. Gli auguro ogni bene. Del Declino hanno fatto parte diverse persone: i già citati Silvio, Mungo e Orlando, e poi Tax, Sandropps, Max, Kabullo... A quest'intervista hanno risposto Orlando (io), Mungo, Silvio e Tax. Non abbiamo risposto tutti a tutte le domande, non ci siamo confrontati prima di rispondere, nessuno sapeva quali sarebbero state le risposte dell'altro. Insomma: vediamo un po' cosa ne viene fuori! | |
Orlando Furioso, Luglio 2006
Nel 1982 avevo 12 anni e comprai il mio
primo 45 giri: era “Words” di F.R. David. Se vi ricordate chi era,
state ridendo o vomitando.
Nel 1985 aggiungevo un pezzo importantissimo alla mia vita: il mio impianto stereo (tuttora mio fedele compagno) e comprai il mio primo 33 giri: era “Eye in the Sky” di Alan Parsons. Questo per inquadrare chi vi sta parlando, che in quegli anni non c’era. Vorrei tenere come filo conduttore la raccolta dei Declino che Orlando è stato così gentile da farmi conoscere. Ascoltandola per la prima volta, mentre cercavo di mettere in fila le mie impressioni, mi accorgevo che mi nascevano domande su domande.E’ da qui che è nata questa intervista…
1.
Iniziamo con qualche domanda di rito: come componevate? Facevate
delle jam, o c’era sempre un compositore principale? E i testi come nascevano?
Venivano scritti da una persona o “in comunità”?
Orlando: Si componevano i brani sia durante
improvvisate jam session che individualmente, a casa sulla propria chitarra. Era
molto importante che ogni brano nuovo venisse “sentito in profondità” da tutti
quanti: doveva convincerci al 100%. Per quanto riguarda i testi, per il
Declino non ne ho mai composti: c’era già chi lo faceva egregiamente.
La mia timidezza faceva il resto…
Mungo: Le idee musicali dei brani (o di parte
dei brani) non venivano fuori da jam ma erano proposte personali che ciascuno di
noi aveva prodotto per conto suo e che “illustrava” agli altri alle prove.
Collettivamente l’idea però era arricchita poi dall’intervento di tutti. Qualche
volta io (chitarra) e Silvio (basso) ci si è incontrati separatamente rispetto
agli altri per “produrre” assieme o per affinare certe soluzioni tecniche ma
normalmente chi aveva un brano, o scampoli di brano, li proponeva.Forse solo la
voce, paradossalmente, era “frutto” del lavoro collettivo nel senso che Sandro
provava il testo e la sua interpretazione fin dalla sua prima esecuzione solo
durante le prove insieme alla band e quindi era sottoposto un po’ più di noi al
vaglio di tutti.Il “taglio” finale del nuovo pezzo, comunque, era sempre
collettivo.Anche i testi nascevano da idee personali ma poi si assemblava,
riduceva e ricuciva il tutto insieme.
2. Sempre a questo
proposito: mi pare di aver capito che le vostre band erano vere e proprie scelte
di vita, pertanto l’aspetto comunitario era preponderante. La band “stava
insieme” non solo per suonare, è così?
Orlando: Sì, in linea di massima era così.
Certamente poteva anche esserci un giro di amici al di fuori della “scena
hardcore”, ma in quel periodo gli amici, i Veri Amici, erano quelli con cui
suonavi, andavi in giro, componevi, sudavi. Era un concetto di amicizia da un
lato un po’ adolescenziale (vedersi tutti i giorni, magari qualche gelosia…), ma
anche in un certo senso molto puro, autentico…
Mungo: Fondamentalmente, all’inizio, si stava
assieme come amici, si frequentavano gli stessi ambienti, luoghi e persone.Si
ascoltava la stessa musica e ci si vestiva allo stesso modo (considera che
magliette, felpe, giubbotti con scritte, loghi e immagini ce le si faceva da
noi… mica si compravano…) Solo in un secondo momento, e solo per alcune band, si
è presentata l’occasione anche di vivere in spazi comuni.
Tax: Questa era una prerogativa di tutti i
gruppi di quel periodo. Ci si metteva a suonare tra amici perché insieme si
voleva vivere un esperienza di quel tipo, suonare, gridare la propria rabbia
attraverso la musica, partendo proprio dallo stare insieme e poi anche per
suonare perché la musica era la cosa più eccitante che ci fosse da fare.
3. Una domanda forse
stupida: un musicista non ha bisogno, di tanto in tanto, di una certa
solitudine? Anche solo per accordare la chitarra, o per scrivere… Che rapporto
avevate con la solitudine, da musicisti? La odiavate? La cercavate? Ne avevate
troppa o troppo poca?
Orlando: La solitudine era una condizione che
qualsiasi post-adolescente conosceva, e conosce, bene. Per me in particolare era
un problema essere l’unico gay dichiarato all’interno della scena hardcore
torinese: avrei desiderato moltissimo avere altri ragazzi gay della mia età con
cui parlare, confrontarmi… Aldilà di questo io amavo ascoltare musica, fare
musica, vivere, progettare, tutto in compagnia. La musica nasceva meglio, per
quanto mi riguarda, quando non ero solo, quando potevo confrontarmi
anche musicalmente con gli altri.
Mungo: Per quel che ricordo di solitudine ce
n’era fin che volevi. A piacere. Considera che all’epoca (parlo della fine anni
’70 e primi anni degli ’80) Torino non offriva assolutamente nulla come spazi di
“aggregazione” giovanile. Qualche bar, discoteche per chi c’aveva i soldi,
parrocchie (anche politiche) e poco altro. Oggi c’è molta offerta sia come spazi
commerciali (vedi locali trend ai Murazzi e nel Quadrilatero
romano) ma anche come spazi antagonisti (centri sociali, locali e altri
spazi associativi più o meno autogestiti). All’epoca, invece, niente o poco di
più. Sai quante volte si partiva il venerdì o il sabato in “pellegrinaggio”
verso Milano, Bologna o Pisa (o tutt’e tre: venerdì Milano, sabato Bologna e
domenica sera Pisa!) per stare insieme ad altri punk in un posto nostro? La
solitudine del musicista? Fa un po’ ridere detta così… nel senso che me la vedo
più per chi suona o produce jazz … comunque sì. A casa mia passavo quasi ogni
giorno qualche ora a schitarrare per conto mio… per il piacere dei miei genitori
e dei vicini.
Tax: Non credo che la solitudine per un
musicista abbia un importanza diversa da chiunque altro. Inoltre, all’epoca in
realtà non ci si considerava nemmeno musicisti, il musicista era uno noioso che
se la menava sulla sua bravura, mentre noi né sapevamo suonare né volevamo
annoiarci. Fondamentalmente cercavamo di stare insieme a divertirci il più
possibile.
4. E’ più importante lo
strumento o chi lo suona?
Orlando: La mia posizione è cambiata in questi
ultimi 25 anni: oggi quasi non m’interessa neppure chi suona, ma il
suono in se’.
Mungo: Le persone, ma aggiungerei che la
scelta non investe solo la coppia “persona/strumento”, ma anche la stessa musica
che si produce. Suonare musica dura, ad alto volume non conta. La differenza non
la fa la musica, né la ferraglia (gli strumenti) la fanno le persone. Di esempi
ce ne sono a bizzeffe in un qualunque negozio di musica. Woody Guthrie (anni
’30-’50) suonava davanti a braccianti e minatori in sciopero, sulla chitarra
aveva la scritta “This machine kills fascists”. Musica peraltro anche
“bruttarella”… però le sue canzoni le cantano ancora oggi. Per non parlare delle
“voci”… Billie Holiday è quanto di più lontano si possa accostare a termini come
rabbia, antagonismo o furore… eppure quando la ascolti (almeno per me)
l’emozione è così devastante che ti senti vibrare pericolosamente… devi smettere
se no ti sbricioli…
Tax: Ovviamente lo strumento da solo non è
niente, è chi lo suona che gli da vita, e lo fa vivere alla sua maniera. Anche
la chitarra più bella del mondo, se non ci riesci a tirare fuori delle
sensazioni che ti appartengono rimane spenta, vuota, inutile. Lo stesso discorso
vale per la tecnica musicale: ho sempre pensato che cercare di assimilare
nozioni di altri attraverso la scuola per esempio, sia molto limitante, perché
per sviluppare la tua “voce” devi cercarla da te, suonando, sperimentando,
ascoltando tutti ma facendo “tuo” ciò che ti piace di più.
5. Era più importante lo
strumento o chi lo suonava?
Orlando: All’epoca, invece, era
importantissimo CHI suonava, non tanto cosa e come suonasse. Non compravamo
neppure i dischi di band che propugnavano idee opposte alle nostre, o che
incidevano su major o cose così. Era, lo so, un posizione molto rigida, ma
all’epoca era anche importante essere rigidi, proprio perché per noi la musica,
la scena hardcore, erano molto più che un “fenomeno” (tantomeno una “moda”!):
erano un modo per esprimerci autenticamente e profondamente e credevamo
fermamente nell’autoproduzione e nell’autogestione delle nostre idee e, in
definitiva, della nostra vita.
6. Kerry King degli
Slayer l’ha raccontata così: “Il Diavolo un giorno mi ha fermato per strada e mi
ha messo in mano il primo disco dei Black Sabbath, dicendo: questo è tutto
quello che ti serve sapere”. A voi che disco ha messo in mano?
Orlando: Non è stato esattamente il diavolo,
ma due persone che amo moltissimo. Mia sorella e mio fratello, più grandi di me,
mi “hanno messo in mano” i primi 45 giri dei Beatles. E' nato
tutto da lì, e non parlo esclusivamente della Musica…
Mungo: Ciascuno di noi ha avuto una storia
musicale personale. Io all’epoca avevo qualche anno più dei miei “compagni di
merende” e quindi anche altre esperienze musicali precedenti.In ambito punk/HC
credo però che i dischi che mi hanno abbiano dato l’impronta più profonda e
importante per le successive scelte musicali personali siano stati:
“Damaged” dei Black Flag, “Fresh Fruit for Rotting
Vegetables” dei Dead Kennedys e, MITICA!, la cassetta dei
Bad Brains per la ROIR. Dopo … tutto il resto.
Tax: Non ho incontrato il Diavolo, io, ma se
l’avessi fatto probabilmente gli avrei detto: “Dammi Damaged dei
Black Flag e non inventarti storie che hai solo i Black
Sabbath…” Con tutto il rispetto per Toni Iommi etc, per una
questione anagrafica suppongo, il suono della chitarra di Greg Ginn fu
la prima cosa che accese una scintilla dentro di me. E forse un anno prima, nel
1980, il muro di suono di Johnny Ramone al mio primo concerto,
a 14 anni.
7. Parliamo della scelta
“stilistica” dell’hardcore. Intanto, storicamente, da dove nasce? Da un lato,
sembra proseguire la strada del punk inglese, ma è molto meno melodico di
questo; dall’altro, sembra accomunarsi con altri stili che nello stesso periodo
storico abbracciavano la velocità sopra tutto il resto: penso al thrash e allo
speed metal, nati più o meno nello stesso periodo. Da dove veniva questa
frenesia per la velocità musicale? Ci sono altri elementi da mettere nel
calderone?
Orlando: Due osservazioni: il thrash e lo
speed-metal sono POSTERIORI all’hardcore-punk! Sono, anzi, nati PROPRIO
dall’influenza hardcore, “metallizzandone” i suoni. Il punk inglese, che
riascoltato oggi pare tutto tranne che “veloce”, fu importantissimo per tutto
quello che sappiamo e certamente fu la prima molla da cui partirono anche le
primissime hardcore band. Ma “punk” e “hardcore” non sono necessariamente
sinonimi, anzi spesso non lo sono per nulla. La “frenesia” per la velocità nasce
dall’urgenza, dalla necessità di comunicare rabbia, potenza (e anche tristezza,
certo), dalla voglia di oltrepassare i limiti di ciò che era considerato
musicalmente “decente”. Alla nascita dell’hardcore, il punk era ormai
completamente assorbito dall’industria (tranne eccezioni, ovviamente); era già
diventato moda, atteggiamento esteriore, masticato e sputato per fare soldi. Una
curiosità: il primo brano musicalmente hardcore (cioè col caratteristico tempo
ultraveloce dettato dalla batteria), pare sia degli Zakhary
Thaks, un’oscurissima band americana del… 1966!!! Per quanto riguarda
la melodia, ricordo che esiste una corrente musicale chiamata proprio “hardcore
melodico” ...
Mungo: Beh, intanto bisogna subito dire che,
questa distinzione tra Punk e H.C., è possibile farla, retrospettivamente,
soltanto oggi. Posso assicurarti, infatti, che dal '77, e fino all' '82/ '83,
non c'era un punk in Italia che non ascoltasse, e non considerasse "PUNK",
gruppi come DAMNED, U.K. SUBS, STIFF LITTLE FINGERS, BUZZCOCKS, SHAM 69 (e,
tutto sommato, anche CLASH o SEX PISTOLS), allo stesso modo di RAMONES, GERMS,
BLACK FLAG, D.O.A., BAD BRAINS o DEAD KENNEDYS. Non solo, ma posso garantirti
che moltissimi punx di allora ascoltavano, e consideravano punk, anche gruppi
come BAUHAUS, KILLING JOKE, SIOUXSIE, WIRE, PERE UBU e perfino i DEVO! Insomma,
quello che voglio sottolineare, è che, in quell'epoca, la cosa che ti
differenziava come PUNK rispetto alla merda che avevi intorno, non era
l'appartenenza a questa o quella "tribu' musicale", ma il fatto che tutta quella
nuova roba lì, era, appunto, nuova. Nuove sonorita', nuovi testi, anche nuovi
looks, una ventata d'aria fresca rispetto ai fighetti che ascoltavano Disco
Music, ai frikkettoni che stavano ancora sul pianeta Woodstock o a quelli che
ascoltavano i cantautori. E questo accadeva dappertutto, non solo in Italia.
Quello che tu, invece, distingui specificatamente, come H.C. ha cominciato a
farsi strada successivamente, piu' o meno dall' '81/ '82 in avanti. La sua
enorme popolarità tra i punx è dovuta al fatto che molto dei gruppi punk
precedenti si era sputtanato commercialmente, ma…attenzione non è quella la vera
spiegazione.Il fatto che ci sia stato, in quel periodo, la nascita di moltissimi
gruppi (e vorrei ricordarti, solo per rimanere in Italia, bands molto importanti
come NEGAZIONE, CRASH BOX, INDIGESTI, RAW POWER, PEGGIO PUNX, C.C.M., WAR DOGS,
I REFUSE IT, PUTRID FEVER, KINA, IMPACT e tanti altri...) è dovuto al fatto che
suo malgrado, o grazie a quello, l’HC era diventato la vera colonna sonora di
quel mondo che all’epoca veniva identificato con “la scena”.
Il mondo delle
fanzines, delle case occupate, dei circuiti “commerciali” alternativi che
stavano mettendo, in quei giorni, i loro primi dentini! E qui, quando parlo di
scena, parlo soprattutto, della gente che, in prima persona, era poi la “Scena”…
con il suo generoso impegno e partecipazione, il suo calore, aiuto e amicizia.
Avrai capito, dunque, dalle mie parole, del perché l'H.C. si sia enormemente
diffuso rispetto al vecchio PUNK '77 e sia, invece, diventato, non l'ennesima
moda da seguire ("di tendenza" si direbbe oggi), ma un'identita' collettiva, un
esperienza di partecipazione e condivisione, momento di formazione, e credo non
solo per me, ma per tanti ragazzi e ragazze di quella generazione. La reazione
"naturale" alla merdosa palude degli anni '80.
Silvio: l’hard core era un esempio di musica
popolare d’avanguardia, all’epoca, cosa che il punk nemmeno pretendeva di
essere. Trovo molto interessante che il codice genetico dell’hard core, la sua
spinta “dal basso”, l’assoluta cesura generazionale che esisteva tra chi suonava
e seguiva l’hard core e chi no, non avessero aiutato a inquadrare nel giusto
modo quell’attitudine. C’era in molti di noi che lo suonavamo una specie di
rincorsa a un eterno presente, una fuga in avanti, che non credo abbia molti
eguali nella “musica d’artista”, chiamiamola così. L’hard core è un suono che si
fa forte del proprio rifiuto delle regole formali: la bella melodia,
l’arrangiamento “carino” eccetera. A conti fatti, facendo le dovute proporzioni,
penso che l’hard core sia stato per la musica popolare quello che
l’espressionismo astratto di Jackson Pollock e De Kooning, o l’arte gestuale del
gruppo Gutai siano stati per l’arte figurativa.
Tax: Per quella che è stata le mia esperienza,
il tuo approccio mi sembra confuso. Dopo un iniziale approccio al punk inglese
più caotico di Discharge e Disorder, il “vero” hardcore per me
è la california dei primi 80, e quindi Black Flag, Circle Jerks, Dead
Kennedys etc etc. Il trash dei grandissimi Slayer e dei
Metallica verranno molto dopo. La velocità, sia come esecuzione che
nell’immediatezza della costruzione dei pezzi è comunque l’aspetto principale.
Ricordo bene quando con Orlando decidemmo di lasciare il 5°
Braccio per formare i Negazione, sia per staccarci dai
troppi e vuoti slogan, ma soprattutto per suonare “il più veloce possibile”…
8. In particolare in
Italia, venivamo da un decennio dove la canzone “di protesta” era, se non
sbaglio, affidata alla forma della ballata, con chitarra acustica. Ciò che ha
poi fatto nascere il fenomeno “culturale” dei cantautori che hanno anche avuto
un riscontro commerciale. La vostra protesta era anche un rifiuto di questa
forma, ormai “svendutasi” al mercato?
Orlando: Certamente! Tutto ciò che era
commerciale poteva anche risultare gradevole all’orecchio (non ascoltavamo mica
solo hardcore!), ma noi non volevamo essere assolutamente parte di nulla che
fosse, appunto, commerciale! Parole come “mercato”, “vendite”, “etichette
discografiche”, “manager”, "giornalisti musicali" ecc. erano per noi
abominevoli. Ed eravamo, almeno la maggior parte di noi, assolutamente sinceri
in questo.
Mungo: Noi non si veniva da quel mondo lì.
Nessuno, e ci terrei a sottolinearlo doppio, ci ha mai avuto a che fare
con quell’ambiente. Io, che ero il più vecchio, e all’epoca dei cantautori ero
poco più che un ragazzino, ascoltavo i Led Zeppelin e Jimi Hendrix. Prima di
scoprire i Black Flag o i Ramones ho ascoltato anche blues e jazz ma i
cantautori …noooo. Cantautori nooo. Li ho sempre trovato insopportabili i
cantautori (a parte pochissime e rarissime eccezioni tutte postume del HC).
Tax: In realtà c’era il rifiuto sia della
forma musicale che dell’approccio politico. Nella canzone di protesta vedevamo
il fricchetone noioso più che una forma di ribellione. La ribellione non stava
certo al Festival dell’Unità e soprattutto all’inizio tutto ciò che non era
autoprodotto era “svenduto” al mercato.
9. In un documentario
dei Jefferson Airplane, Jorma Kaukonen ancora adesso si illumina di un sorriso
così quando ricorda la prima volta che ha infilato il jack di un amplificatore
Marshall. Cosa significava essere elettrici, cosa che forse oggi diamo per
scontata? Sentivate anche voi “the power of amplifiers” come lo chiama Kaukonen?
Orlando: Nel 1980, quando si mossero in Italia
i primi fermenti hardcore, avevamo tra i 16 e i 20 anni. Aldilà della formazione
musicale di ognuno di noi (che sicuramente comprendeva anche ottima musica
acustica) ciò che amavamo era la potenza, l’energia, la velocità, persino il
frastuono! Tutta roba che, mi spiace, con una chitarra acustica e delle bongas
non si può ottenere. Il volume doveva essere altissimo, persino disturbante,
perché non volevamo essere “musicalmente carini” ne’ tantomeno
“orecchiabili”.
Mungo: Sì! Sì! E anche il distorsore della
chitarra “a palla” (tutto aperto al massimo) e la doppia cassa della batteria
che spacca nonché l’effetto “tuono” al basso! Fighissimo! Altro che charangos e
djembè!
Silvio: la cosa più bella dell’hard core, la
sua irripetibile esperienza, era l’atmosfera quasi messianica che si creava in
certe esibizioni dal vivo. Non ho mai più visto tanta potenza, tanti watt, tanta
forza in azione da allora. La gente, letteralmente, ti cadeva addosso mentre
suonavi, ti travolgeva. Niente è stato più massiccio, più esplosivo dell’hard
core. In questo senso, è per questo che certi concerti hard core sono rimasti
scolpiti nella memoria di chi li ha visti.
Tax: Senz’altro la distorsione ed il volume
erano la cosa fondamentale, probabilmente esasperavamo anche questi fattori per
distanziarci da tutto il resto e perché era entusiasmante. Per intenderci però,
allora un suono come quello dei Jefferson Airplane non lo consideravamo
esattamente “elettrico”… o comunque non molto….
10. Come era il rapporto
fra band e pubblico? E’ corretto tracciare una demarcazione netta, o in quel
clima “comunitario” le due cose non erano così distinte?
Orlando: Il concetto stesso di “pubblico” ci
era abbastanza estraneo… e chi ha partecipato a un concerto hardcore dell’epoca
sa bene cosa voglio dire. Un attimo prima eravamo sotto il palco a “pogare”,
l’attimo dopo eravamo noi sul palco a far pogare gli altri, con la nostra
musica. Direi proprio che la demarcazione tra band e pubblico era non solo quasi
inesistente, ma i “ruoli” erano addirittura intercambiabili…
Mungo: La rottura band pubblico non poteva che
essere drastico e totale. Intanto perché la stragrande maggioranza della gente
che veniva ai concerti erano amici con cui si passava tutto il tempo e chi
saliva a suonare magari un minuto prima era sotto il palco a scatenarsi e
viceversa. Ai concerti c’era una grande libertà di movimento (suonavamo proprio
per quello!). Chiunque abbia partecipato ad un concerto HC dell’epoca sa di che
parlo. Volava di tutto, persone incluse! La gente saliva, scendeva (molto spesso
buttandosi sui sottostanti) o semplicemente stazionava, ballava, sedeva o
gironzolava per il palco e a tutti andava bene così. Ci sono state volte che
c’era così tanta gente addosso che non riuscivo letteralmente a raggiungere il
manico della chitarra con la mano! Poi man mano che i gruppi diventavano più
bravi e ”popolari” si è ripristinata un po’ la situazione band/pubblico a
beneficio di tutti (musicisti e gente venuta ad “ascoltare”). Comunque anche
dopo c’è stata molta libertà per la gente di salire on stage. Niente
transenne, servizi d’ordine e fosse di contenimento. Ho visto qualcosa di simile
ancora di recente l’anno scorso al concerto di Iggy alla
Pellerina di Torino. Ad un certo punto hanno cominciato a salire
sul palco decine di ragazzi e ragazze a cantare, ballare e “cazzia’” con Iggy e
il gruppo. E lui, da tosto vero qual è e non banfone, lì ad incitarli di più e a
incitarne ancora altri a salire su, in un caos totale durato, però, il tempo di
un paio di pezzi!
Tax: Quello che succedeva era che il pubblico
era composto quasi interamente da ragazzi di altri gruppi che si alternavano a
suonare, quindi non c’era proprio differenza, almeno nel primo periodo. E anche
in seguito comunque, il palco era solitamente stracolmo di amici ai lati o di
chiunque salisse magari per fare un mucchio o saltare sotto (stagediving).
11. Siete mai arrivati a
temere il pericolo dell’auto-referenzialità? Il rischio che ho sempre percepito,
forse sbagliando, nelle “scene” molto compatte come quella hardcore (ma come
molte altre), è sempre quello di diventare delle “bolle” impermeabili che
portano ad un appiattimento di temi e idee: perché la “scena”, l’ambiente,
accetta solo determinati temi e idee, quelle che all’inizio sono le idee forti,
ma che col tempo rischiano di diventare appunto auto-referenziali, come se la
scena arrivasse a nutrire se stessa come un vortice, un circolo vizioso. C’è
sempre una componente di pubblico che vuole e accetta solo le stesse cose,
mentre immagino che un musicista sia soprattutto un creativo che vuole sempre
crescere. Avete mai incontrato situazioni come questa?
Orlando: L'hc non è(ra) fatto per "convertire
musicalmente": è evidente che una musica simile può essere fruita e goduta solo
da persone con un certo background, non può piacere a tua zia (mentre, ad
esempio, i Jethro Tull non dispiacevano a mio padre, che col rock non
c'entrava nulla). L'autoreferenzialità era quasi cercata, era una forma di
purezza che si voleva mantenere, era ciò che ha salvato l'hc vero dall'essere
inglobato da mtv. Poi, sta alle persone chiudersi o meno in un unico "genere"...
Mungo: Sì e quello è stato proprio il suo
limite strutturale anche se naturale. L’HC non è una musica “facile” da fruire.
E’ faticoso suonarla, ballarla, ascoltarla, figuriamoci vivere di quella! Solo i
gruppi che riuscirono a rinnovare il loro suono continuarono ancora per un
po’.L’ambiente che si era creato intorno e nella scena punk HC da metà degli ’80
stava già faticando parecchio a non finire arrestato, denunciato, alcolizzato,
intossicato. Anche nel nostro piccolo mondo, poi, si riproducevano tutti i
meccanismi perversi di questa società.Non credere, infatti, che la cosiddetta
“Scena” fosse poi così impermeabile dalle medesime chimere e magagne della
società che “ci faceva schifo”. Questa involuzione portò ad un momento di grosso
scazzo fra tutti. Alcuni si chiusero ancora di più in quel mondo di paranoia
diventando simili ai bambini soldati della città di Münster (…se hai letto “Q”
sai di cosa parlo), altri si “riadattarono” alla “società civile”, altri
emigrarono su altre sponde (geografiche, musicali, culturali…). Noi abbiamo
preferito, come Declino, il Seppuku. Molto meglio. Abbiamo tutti fatto altro,
peraltro rimanendo amici pur senza frequentarci molto, e dopo 20 anni eccoci
qua. Più spelacchiati, più panzuti (anche più stronzi) ma ancora qua.Yeahh!
Silvio: la scena hard core era consapevolmente
auto-referenziale, lo era per scelta. L’auto referenzialità era la sua unica,
vera forza, quella che le ha permesso di continuare a vivere fino a oggi in modo
originale e lontano dai normali ambienti della comunicazione, dai giornali. In
questo senso, il fatto che l’hard core non abbia sfondato presso il grande
pubblico è la riprova di quanto i suoi contenuti fossero poco digeribili.
Tax: C’era un chiudersi in se stessi a difesa
e protezione dall’esterno ma anche per rivendicare forte la propria differenza.
Dopo poco diventò però, almeno per noi che suonavamo, qualcosa di troppo stretto
e la scena si restrinse ad una più piccola famiglia che chiamavamo band, con la
quale peraltro passavamo la maggior parte del tempo in tour come in città.
12. Parliamo dei testi.
Innanzitutto, la scelta dell’urlato ci porta di nuovo vicini al “growl” death
metal che nasce sempre più o meno nello stesso periodo. Ma quello che vorrei
domandarvi è questo: nel disco, a seconda della produzione, la voce è più o meno
“davanti” ma il cantato non è mai intelliggibile e riconoscibile, se non con
testi alla mano o ripetuti ascolti. Era una scelta stilistica questa? O il
risultato del fatto che un Rickenbaker amplificato lascia indietro qualunque
ugola?
Orlando: Di nuovo: il growl è di parecchio
posteriore! Diamo a Cesare ecc. ecc. Su questo argomento credo di avere
una posizione abbastanza isolata: per me la voce non è nient’altro che un altro
strumento della band. Per me il testo di una canzone è importante nel momento in
cui, creatosi l’interesse, viene - per esempio - letto. Non è un caso se tutte
le band dell’epoca portavano ai concerti i volantini contenenti i testi: eravamo
ben consapevoli che la voce usata in quel modo non permette di comprendere le
parole! Solo che per me personalmente la non comprensione delle parole durante
l’ascolto del brano, non è affatto un problema. Ripeto: esistevano (ed esistono)
i testi scritti, da poter leggere con calma o mentre si segue il disco. Tant’è
vero che la gente sapeva a memoria tutte le parole delle hardcore band e non le
aveva certo imparate durante i concerti! Penso inoltre che uno dei difetti
dell’hardcore italiano sia sempre stato quello di mettere la voce in primo
piano, quasi come se, anche su disco, il cantante fosse una specie di
“front-man”… Difetto che non riscontro nella maggior parte delle produzioni
hardcore non italiane.
Mungo: Sicuramente l’espressione “urlata”
della propria rabbia era di più immediato acchito e riproducibilità.
Probabilmente anche molti cantanti non volevano nemmeno essere tali. Volevano
cioè dare sfogo alla propria ferocia ed era giusto così. Ma nella scena HC,
benché si sia in qualche modo “privilegiato” l’approccio urlato del cantato, ci
sono state anche molte altre interpretazioni altrettanto importanti senza essere
per forza urlate “tout court”: penso principalmente a HR, il cantante
dei Bad Brains, ma anche altri (i Dicks, Jello Biafra stesso
per i Dead Kennedys, per non parlare dei Würm e dei Dead Hippies).In Italia puoi
farti un’idea dei differenti approcci della voce ascoltandoti i Peggio
Punx, gli I Refuse it! o gli Indigesti.
Tax: Urlare non era una scelta precisa, era
come veniva, si cantava per gridare. Per i dischi, nelle prime produzioni
eravamo convinti solo di una cosa: non mettere la voce davanti ma lasciarla
“dentro” al resto. I pezzi dovevano spaccare come una cosa unica, parole e
musica. Di tutto il resto sapevamo poco, però il risultato, pur sentendo il peso
degli anni, alcune volte è forte ancora oggi.
13. Nei confronti del
pubblico, la non comprensibilità dei testi era subordinata al fatto che il
pubblico i testi li conosceva già? O che doveva “sbattersi” per
comprenderli?
Orlando: Vedi risposta precedente.
Mungo: Spesso la non comprensibilità nasceva
semplicemente dalla difficoltà tecnica di pronunciare tutte le parole di un
testo a quelle velocità. Con il tempo, man mano che l’ambito HC si contaminò di
altre sonorità e con anche la crescita artistica di molti cantanti, gli stessi
si smaliziarono un po’ di più passando dal testo urlato a interpretazioni più
“raffinate”.
Tax: Il fatto che li esiguissimo in quella
maniera non ci impediva di distribuire prima dei concerti i volantini con i
testi, visto che ci tenevamo alle parole. Poi spesso chi sapeva almeno una frase
la urlava in coro…
14. Sempre sui testi:
leggendone la complessità e la forte carica (sono dei BEI testi, questo lo
voglio dire: dei testi MOLTO belli), non ci credo nemmeno per un attimo che
fossero lì solo per “fare canzone”. Allora perché non sono immediatamente
fruibili?
Orlando: Proprio perché l’hardcore non era
solo musica (e testi), ma un modo di intendere la vita. Musicalmente, per quanto
MI riguarda, l’importante era che i testi fossero veri, autentici, profondi; non
era importante che fossero comprensibili durante il concerto o su disco! Ma poi
erano COMUNQUE immediatamente fruibili: c’erano i volantini sia ai concerti che
all’interno dei dischi autoprodotti.
Mungo: Una delle caratteristiche del Declino
rispetto ai moltissimi altri gruppi dell’epoca (ma non siamo stati i soli) era
la nostra proverbiale e semimaniacale attenzione riguardo ai testi (oltre che
alla musica). A parte che chi scriveva un testo già partiva con l’intenzione di
fare un “bel lavoro” ma era poi dalla discussione critica con gli altri che
venivano gli aggiustamenti, i tagli e le rifiniture che facevano di un testo, di
un pezzo, un vero pezzo “Declino”. Siamo sempre stati molto orgogliosi dei
nostri testi e molti ce ne hanno dato atto anche a distanza di tempo.Un esempio?
Mi sono riletto il testo di “Vittime” qualche giorno dopo l’attacco di
Nassiriya (e il successivo piagnisteo nazionale)… provare per credere!
15. Sempre riguardo ai
testi: la prima impressione, spero che non sia sbagliata, che ho avuto
ascoltando il disco è di una forma musicale più o meno convenzionale, fatta di
chitarra basso e batteria, su cui la voce “cala” come se fosse un corpo
estraneo: fuori tempo, senza melodia, senza rime… Al di là del rifiuto
“ideologico” di una linea melodica “bella” e di un testo convenzionale, cosa
stava dietro a questo modo di utilizzare la voce (se c’era dietro qualcosa,
ovviamente...)?
Orlando: In alcuni brani è come dici tu, per
altri no. Quando cantavo io (non nel Declino) per me era importante che il tempo
fosse graniticamente perfetto, voce compresa. Ma ognuno/a aveva il proprio stile
e Sandropp cantava così: fuori tempo.
Mungo: Ahi Ahi qui metti il dito in una piaga
ancora aperta… certo per molti versi l’urgenza dello sfogo urlato prescindeva
dal suo inquadramento in termini di metrica e tempi. Il punto è che, in linea di
massima, ci sarebbe piaciuto che la voce seguisse i tempi e i modi del brano…
malauguratamente i cantanti sono “musicisti” difficili da gestire per chi sta
dietro a fare la manovalanza sonora…
16. Saltiamo un po’
sulla musica. Una cosa che sicuramente fa andare la vostra musica oltre il punk
è la complessità tecnica. Sono rimasto colpito da tracce come Mortale Tristezza
o Vita, che in due minuti contengono idee per 4 o 5 canzoni! L’impressione che
ho è che l’attitudine hardcore fosse del tipo: “siamo tosti ma non ce la
tiriamo”. Faccio un esempio: un gruppo metal di un certo tipo, come i Metallica
di “Justice for all”, avrebbe tirato melodie e stacchi per 6 o 7 minuti, invece
voi li ripetevate al massimo due volte, non di più. Come se fare canzoni più
lunghe fosse una “concessione” alla facilità o un eccesso che “puzzava” di
EL&P. Era così?
Orlando: Era così per il fatto di “non
tirarsela”, almeno nel Declino. Poi, band che se la tiravano ce n’erano, ma non
era un problema se non per loro stessi. E' vero che tecnicamente le canzoni non
erano di esecuzione semplicissima, ma questo anche perché il Declino aveva una
vocazione naturale a una certa “originalità”. La brevità delle canzoni derivava
dal discorso, già fatto, dell’urgenza, della velocità, della potenza; non c’era
il timore di fare brani lunghi, assolutamente: è che partendo da un certo
discorso, il risultato non poteva che essere quello, altrimenti avremmo fatto
altra musica.
Mungo: Il Punk e l’HC nascevano da un’urgenza.
Sono state la colonna sonora di un rifiuto e di un disagio che stava dietro alla
rabbia impotente di quegli anni. Con il tempo e le dovute e necessarie crescite
e contaminazioni, molti generi musicali si sarebbero e si sono
influenzati/contaminati reciprocamente. Ma l’HC fino, più o meno, al 1985 è
stato il regno della velocità e della brevità dei brani. Dal 1985 si è evoluto.
Prima attraverso l’apporto di sonorità e rivisitazioni thrash Metal, ma anche un
po’ di suono psichedelico, poi con “cose” di provenienza Funky e Hip Hop mentre,
in seguito, con la contaminazione di sonorità decisamente Rock. Non saprei dirti
se all’epoca ci fosse una precisa volontà di “non tirarcela”. Credo fossimo
orgogliosi di essere tosti ma brevi. Tipo…citazione e stop. “Pugno in faccia e
via”. Siamo bravi ma non ci autoincensiamo (posizione peraltro abbastanza snob
ma ogni espressione culturale d’élite lo è). Con il tempo poi ho imparato ad
apprezzare e amare, oltre all’esclusività della citazione, anche il suo opposto
e cioè la ripetizione. Per tornare, invece, alle reciproci contaminazioni, e
siccome li hai citati tu… non ti sembra che “St. Anger” dei Metallica
sia un bel disco di H.C. come avrebbe potuto essere suonato vent’anni fa?
Tax: Era per noi naturale, si voleva essere
veloci, come delle scariche, dei lampi, e scatti e ripartenze e salti. Per
l’intensità che ci mettevamo due minuti erano solitamente più che sufficentie
quindi tutte le idee musicali venivano iper compresse in quello spazio di
tempo.
17. Un’altra impressione
che ho è che per voi il messaggio sorpassasse, con buona pace di McLuhan, il
medium. Le canzoni sono scarne, pura ossatura per il testo (a sentirlo!). Però
nel contempo c’è un brano come Eresia che è quasi progressivo, con il
suo andamento a spirale, ma che soprattutto rivela la volontà di creare comunque
una musica suggestiva, una musica che parli all’immaginazione… C’erano entrambe
queste anime nel Declino? O fu solo un esperimento? O non c’era niente di così
programmatico?
Mungo: Intanto bisogna ricordare che la
necessità di uscire dai “tempi canonici” dei brani brevi e iperveloci era comune
a numerose band. Ricordo adesso, a braccio, i Black Flag da “My War” in
avanti, i Butthole Surfers o, in Italia, gli I Refuse It!. Il brano
Eresia durava circa 3 minuti ed era un’eresia per l’epoca!
Originariamente però non fu pensato per essere un brano progressivo. Doveva
essere solo un po’ più lungo dei soliti 1 minuto e mezzo - 2 minuti degli altri
nostri pezzi. Capimmo le sue potenzialità (nei tempi e nella forma “in
progress”) durante il concerto a Bielefeld per il Chaos Tag di
Hannover quando, in un crescendo di puro delirio, e senza rendercene nemmeno
conto, lo tirammo avanti per quasi un quarto d’ora con la gente che si
sfracellava letteralmente sotto il palco! Successivamente ragionammo
sull’eventualità di esplorare altre situazioni sonore e, da un certo punto di
vista, il brano “Come una promessa” dall’EP Eresia nasceva e
voleva essere la nuova o una delle nuove direzioni del suono Declino. Eravamo
tutti molto eccitati dall’idea di muoverci anche in quelle direzioni ma poi non
se ne fece nulla e più tardi ci sciogliemmo.
Silvio: “Eresia” era nata per
celebrare il rito messianico del concerto hard core, come l’abbiamo descritto
prima. Era una specie di lunga sigla di chiusura, che portava al massimo la
tensione del concerto, ne rappresentava l’apice e, allo stesso tempo, la
scaricava in una tornata di rabbia. La suonavamo a luci spente, non sapevamo mai
quanto sarebbe durata. “Eresia” era un pezzo nato per restare unico
nella nostra scaletta. In qualche modo, era la “The end” dei Doors
trasportata nell’universo hard core.
Tax: Dal vivo Eresia era il delirio
totale, il gran finale, era epico, Sandro che gridava come un animale impazzito,
la gente che pogava come in trance, era l’urlo più forte e lungo degli altri, e
per quello che era, ne bastava uno.
18. Quali erano i vostri
“canali di informazione” che formavano non solo la vostra cultura musicale ma
proprio la cultura in generale? Seguivate delle radio? Alcuni quotidiani? O
veniva tutto dall’auto-produzione (e l’auto-produzione da dove le prendeva, le
notizie)?
Orlando: Io seguivo, leggevo e ascoltavo di
tutto, prendendo da ogni cosa ciò che ritenevo importante e filtrando il tutto
con la mia sensibilità (e, perché no, la mia ideologia). La controcultura, la
controinformazione, non l’hanno certo inventata ne’ il punk ne’ l’hardcore.
Inoltre all’epoca la produzione di fanzine, programmi radio, pamphlet ecc. era
diffusissima e sia il passaggio brevi manu che tramite posta era intensissimo:
all’epoca tenevamo corrispondenza con mezzo mondo!
Mungo: “Canali di informazione” rispetto a
che? E’ ovvio che buona parte dell’informazione generale provenisse dai canali
istituzionali e dai media (considera che internet non esisteva e il confronto
delle notizie poteva avvenire solo se ti leggevi più giornali). Bisogna però
dire qualcosa di più sulle notizie “altre”… quelle che solitamente non vengono
pubblicate, se non marginalmente, sui media… Radio e/o programmi radio ce
n’erano pochi e non dappertutto. Esisteva però il mondo delle “Fanzine”. I fatti
e le loro “dinamiche”, interni alla scena Punk-HC ce le si leggeva sulle fanzine
che circolavano parecchio anche se uscivano con poca continuità. Alcune erano
disperatamente e faziosamente solo musicali mentre altre invece riportavano
discussioni e vari argomenti tipici alla controinformazione (principalmente
sulle questioni di repressione, anarchia, inquinamento, occupazioni e lotte,
autoproduzioni, gender, droga…). Un altro dei “veicoli” più interessanti, per
quanto riguarda l’informazione tra la gente era il contatto diretto proprio con
altra gente che veniva da posti anche molto lontani (ricordo per l’ennesima
volta che non esisteva ancora internet…). Ad esempio quando gli
MDC, gruppo storico dell’HC che viveva a San Francisco,
suonarono da noi promuovendo il loro EP autoprodotto “Multi Death
Corporation”, portarono la discussione nella scena anche su tematiche
anti-imperialistiche (oggi si direbbe anti-globalizzazione) perché il disco era
un duro atto d’accusa della politica criminale USA in Centroamerica. Lo stesso
avvenne in merito alle occupazioni nei tanti squat che cominciavano allora a
essere una realtà, anche in Italia.
Tax: La maggior parte della cultura musicale
era acquisita dall’autoproduzione, tramite le fanzine e contatti con le persone
che le scrivevano e che magari erano gli stessi che poi organizzavano i concerti
e poi magari stampavano anche i dischi. All’epoca si scriveva insieme Disforia
ad esempio, una fanzine legata anche ad una produzione e distribuzione di
cassette. I contatti tra diverse scene erano molto fitti, in Italia ci fù anche
un tentativo di fanzine “nazionale” con
Punkaminazione, ma non durò a lungo. I primi tour
invece li organizzammo proprio grazie a questa rete, anche fuori
dall’italia.
19. Robert Fripp ha
detto: “La differenza fra un gioco e un’attività creativa sta nel fatto che
l’artista deve rispondere ed è responsabile della propria creazione. Se un
bambino gioca, è sì creativo ma non è tenuto a rispondere del suo gioco. Se un
artista si mette a creare, è tenuto, obbligato, ad essere creativo. Il che
significa essere spontaneo, come un bambino che gioca. Ma allo stesso tempo,
egli è responsabile delle ripercussioni che avrà il suo lavoro”. Che ne pensate?
I Declino appartengono a questa categoria di artisti?
Orlando: Trovo un po’ cattedratica questa
definizione di Fripp (che, peraltro, ho sempre amato e seguito come musicista)…
Il mettere dei paletti così rigidi su cose così poco rigide come la creatività,
mi sembra vada contro lo spirito della musica. Credo che chi produce qualcosa,
qualsiasi cosa, abbia l’unico dovere di essere onesto e sincero, e basta.
L’obbligo della creatività lo lascio a Fripp …il quale un giorno mi spiegherà la
definizione di “artista”, che per lui pare essere così chiara e limpida…
Mungo: Eravamo (siamo) degli artisti? Quali
ripercussione culturale ha determinato il Declino e i lavori prodotti (dischi,
concerti…)? Booh? Artisti nostro malgrado o solo bambini che giocano?
Tax: Credo appartenessimo di più alla
categoria dei bambini, irresponsabili, magari un po’ cresciuti ma che vogliono
giocare e che se ne fregano delle ripercussioni. Perché anche il concetto di
musica come lavoro non è che ci piacesse proprio, anzi…. Per metterla nel
discorso di Fripp, è il bambino l’unico vero artista….
20. The The ha scritto:
“If you can’t change the world / change yourself – and if you can’t change
yourself / then change the world”. Cosa volevano fare i
Declino?
Orlando: Toh, hai citato uno degli artisti
degli Anni 80 (ma che è ancora attivo oggi!) che apprezzo e ammiro di più! La
sua “Uncertain Smile” è una delle mie canzoni preferite di sempre!
Comunque noi volevamo cambiare sia noi stessi che il mondo. Il discorso di The
The (Matt Johnson) era parte integrante della nostra vita.
Mungo: Ambizioni pubbliche: cambiare il mondo,
cambiare noi stessi, essere i pifferai e tamburini della Rivoluzione. Ambizioni
private: divertirci, suonare, suonare e suonare. Ambizioni segrete: essere
famosi, fare dischi (soldi no perché non eravamo abbastanza furbi), avere tante
ragazze per fare sesso (frase storica di Joey Ramone: “Se non avessi suonato
in una punk band non avrei mai avuto tutte le ragazze che ho avuto con la faccia
che mi ritrovo”)
Silvio: il Declino voleva uscire dal grigiore
di una città orribile com’era la Torino dei primi anni ’80. Aveva un progetto,
chiamalo sogno se vuoi, e abbastanza talento e testardaggine per cercare
d’inseguirlo. Credo che abbiamo messo su la band per sopravvivere, tutto
qui.
Tax: Istintivamente volevamo divertirci
facendo la cosa più tosta che conoscevamo, poi questo è diventato anche un
“essere diversi” e quindi almeno cercare di vivere una vita con meno compromessi
possibile con il resto del mondo. Per me è una ricerca che continua ancora oggi,
ma certo è nata lì.
21. Torno ancora sui
testi. La critica sociale sembra sempre associata ad un “fuori”, come se
dicesse: la vostra società fa schifo ma io mi colloco all’esterno. Non ne faccio
e non ne farò mai parte. Come se fosse sempre la “voce di uno che grida nel
deserto”, senza futuro. Sono testi di denuncia, legati al momento, in cui è
difficile trovare una prospettiva, uno sbocco. C’erano elementi di “proposta”
nel vostro pensiero? Idee per costruire? Idee “sociali” di
futuro?
Orlando: Le nostre idee riguardavano
l’autogestione delle nostre produzioni, QUINDI della nostra stessa vita. Non
importa cosa sia successo “dopo” o “se ce l’abbiamo fatta o meno”: in QUEL
momento eravamo delle voci che grifavano nel deserto (deserto molto affollato,
peraltro!) ed eravamo, per certi versi, DAVVERO “fuori dal sistema”. Dicevamo di
rifiutare le ideologie, ma in realtà io ne ho sempre avuta una, di ideologia:
massima libertà possibile senza danneggiare il prossimo. Che non c’entra
assolutamente NULLA, tengo a precisare, col “cristianesimo” (che aborro
sufficientemente).
Mungo: All’epoca gli slogan che andavano per
la maggiore nel nostro giro erano: “la tua rabbia non esplode, la tua rabbia
resta dentro…combattiamo almeno per noi stessi” e “autogestione per autogestire
le nostre vite” se ben ricordo o qualcosa che suonava così. Denuncia e proposta
dunque. Quanto poi li mettessimo in pratica è difficile dirlo.Ma il tutto
restava in termini assoluti, non era un programma politico. Forse più un augurio
che una conquista.
22. “Non troverete le
parole / per ricordare a voi stessi ciò che eravate”. Questi versi sembrano
quasi negare la possibilità di questa stessa intervista! Perché non troveremo
(troveranno) le parole?
Orlando: Queste parole sono bellissime e, per
moltissime persone, purtroppo profondamente, disperatamente vere… Non voglio
dire altro.
Mungo: La frase che riporti è un passo del
testo “Come una promessa” che dà anche il nome al titolo del presente CD. Ci
piaceva questa sua nuova lettura e così l’abbiamo ripresa per il nuovo lavoro.
Originariamente, però, quel testo fu scritto (dal sottoscritto!) prendendo
spunto da un evento di cronaca di quegli anni. Nell’85 o giù di lì, Giuliano
Naria, un detenuto per motivi politici che si era fatto un bel po’ di anni di
galera per essere stato associato dagli inquirenti alle Brigate Rosse per la sua
“scomoda” militanza politica, venne rimesso in libertà per sopraggiunti gravi
motivi di salute. Gli anni di carcere gli erano stati particolarmente duri anche
perché mai aveva ceduto alla tentazione di avere sconti di pena in cambio di
favori o delazioni. Tanto duri che, appunto, ci si era ammalato di cancro e dopo
pochi mesi dalla sua liberazione, infatti, ne morì. Ora la rabbia e
l’incazzatura che aveva mosso il mio moto per cui avevo scritto quel testo, era
stato che, tra i promotori della richiesta della sua liberazione, ci furono
molti esponenti dell’allora PCI che sul quotidiano L’Unità sventolarono a destra
e a manca l’innocenza di Giuliano e la durezza delle sue condizioni
d’incarcerazione. Quegli stessi esponenti politici, giornalisti e partito che
per tutti i cosiddetti “Anni di piombo” erano stati i migliori delatori
e i maggiori volenterosi forcaioli di ogni forma di critica sociale del
movimento antagonista dell’epoca.Io di quegli anni precedenti (avevo 17 anni nel
1977) ricordavo bene le vicissitudini che avevano portato Naria in carcere e la
vergognosa campagna diffamatoria a suo carico strombazzata da quegli stessi
signori che adesso si ergevano a campioni della libertà e democrazia. Così
“Come una promessa” significava semplicemente che “noi non scordiamo” e
che per quanto “siate sempre stati in grado di cambiare fatti, pelle e bandiera”
insomma… vi teniamo d’occhio.
23. In “Piera degli
Spiriti”, Davide Toffolo ha scritto: “Il rock ‘n’ roll è spostare casse nere da
una parte all’altra della città”. E’ vero?
Orlando: Ho moltissima stima per Toffolo come
fumettista. Come musicista no: la sua band non mi è mai piaciuta (è un delicato
eufemismo…). La sua frase, probabilmente “ad effetto”, presa così,
decontestualizzata, non mi dice assolutamente nulla e, anzi, mi sembra una
sciocchezza… Se per lui il rock’n’roll è spostare casse nere ecc. ecc... beh, mi
spiace per lui. Spero comunque ci regali presto altri stupendi fumetti!
Mungo: Al di la del fatto che io non so chi
sia Davide Toffolo… mi sembra una citazione del cazzo. Cioè forse calza a
pennello per il rock and roll… ma ridurre quello che è stato la scena punk e HC
(perlomeno negli anni ’80) alla sua dimensione di “tour, concerto, sbevazzata e,
se va bene, scopata…” non è certo la motivazione e lo spirito che ha mosso
migliaia di persone in tutto il mondo in quegli anni a sbattersi e inventare uno
stare assieme fuori dalle logiche del mercato e dei “Sacri miti” della musica.
Il che non vuol dire che tutti si fosse dei santi o che l’attitudine fosse
condivisa e assimilata bene da tutti e allo stesso modo. Ma questa musica,
suonata allora solo nelle case occupate (Virus, Leonkavallo, Giungla…etc....) o
in situazioni molto marginali (Victor Charlie, Tuwat, VanKiglia, Casalone…),
era, più o meno consapevolmente, diventata il veicolo "artistico" più diretto e
aggregante di una protesta sociale che, facendo della ricerca di spazi da
autogestire (quasi sempre attraverso le occupazioni) il perno della sua identità
politica e di azione, dava una risposta a delle urgenze e bisogni. Per molti
l'avvicinarsi all'H.C. era tutt'uno con il partecipare attivamente alla, come si
chiamava allora, "scena". Il fatto che, forse per la prima volta, migliaia di
ragazzi (e non solo in Italia) si incontrassero e autogestissero questi nuovi
spazi per fare concerti, che collaborassero tra loro anche a distanza di
migliaia di chilometri per autoproduzioni discografiche (ricorda che nessuno ma
proprio nessuno allora aveva computers e internet non esisteva nemmeno) …etc…, e
nota bene, il tutto completamente fuori dalle logiche del mercato e della moda,
diventava tutt'uno con proporre un nuovo e diverso “stile di vita”. Fosse anche
solo per stare assieme, girare per l'Italia (e poi all'estero) a seguire i
concerti dei gruppi che amavi. Vivere in quell'ambiente e di quell'ambiente,
conoscere nuova gente che aveva le tue stesse esigenze e passioni ti faceva così
nascere la voglia di fare un gruppo, metterti a suonare anche se non se ne eri
capace.Essere protagonista in senso collettivo e condiviso. Non per spostare
casse nere ne', almeno nei presupposti, per fare carriera.
Silvio: non confondiamo le cose. L’hard core è
un attitudine, il rock n’roll un mito che qualunque sfigato può pensare di
vivere in prima persona, magari indossando un giubbotto di pelle dopo aver fatto
un lavoro da schiavo per tutto il giorno in fabbrica, o in un ufficio. Chiunque
si sia trovato a un party con i commercialisti con la camicia firmata che pogano
“Should I stay or should I go” dei Clash (un gruppo magnifico, sia
chiaro) sa cosa intendo.
Tax: Il Declino non è mai arrivato al punto di
annoiarsi con i clichè del rock’n’roll, e probabilmente non ne sarebbe stato
capace. Ma certe cose, adattate alla nostra maniera e alle condizioni del
periodo, le abbiamo vissute ovviamente anche noi. Rispetto ad esperienze
successive il ricordo che ho delle avventure del Declino è comunque un po’ da
pionieri: tour in treno con solo le chitarre in spalla piuttosto che furgoni che
miracolosamente arrivavano a destinazione, date che saltavano nell’arco di una
telefonata, casse di birra come premio simpatia della serata precedente bevute
calde il giorno dopo raggiungendo un'altra città…
Pietro HPL Meroni - Novembre 2005 - Luglio 2006
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mercoledì 28 novembre 2012
DECLINO - intervista
DECLINO - Intervista
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