Quando i Rolling Beatleavano / Il giornale di ieri
di Glauco Cartocci
« Ne avevo abbastanza di quella merda del Maharishi, delle perline e dei campanelli. Non so da dove venisse tutta quella roba. C’è un netto cambiamento fra il materiale di Their Satanic Majesties Request e Beggar’s Banquet. » (Keith Richards)
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« Between The Buttons? Non ricordo molto di quell’album, non saprei dire nemmeno che pezzi c’erano sopra. » (Mick Jagger)
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« Non so se da Satanic Majesties sia venuto fuori qualcosa di buono. Avevamo carta bianca per qualsiasi cosa facessimo… decisamente troppo! » (Charlie Watts).
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Così, a distanza di tempo, gli Stones “liquidano” il loro periodo psichedelico. Gli anni ‘66-‘67, dopo Aftermath e prima di quel Jumping Jack Flash che fu il brano simbolo del loro programmatico “ritorno alle origini”.
Se vogliamo, nella prospettiva storica, hanno certamente ragione: il gruppo è decisamente noto per tutt’altro genere di pezzi, e molto raramente sono state eseguite in concerto canzoni tratte dai due album citati, neanche Ruby Tuesday e We Love You, uscite su singolo. Sì, all’inizio suonarono 2000 Light Years, ogni tanto si è affacciata Let’s spend the night together, in qualche album live o compilation, ma senza poi tanta convinzione.
L’aver rinnegato l’epoca della sperimentazione lisergica ha una certa logica, considerato il sostanziale appiattimento di Mick & C, negli ultimi trent’anni e passa, su un sound sperimentato, “tipico”, ormai marchio di fabbrica. Quando compare, inopinato, un brano come Continental Drift (da Steel Wheels) che rimanda direttamente a quel periodo, spicca per il deciso contrasto con una produzione standardizzata.
Un ennesimo esempio di ripetitività è il recente A Bigger Bang, il quale (è stato scritto) si basa sulla convinzione che i fan devoti, numerosissimi in tutto il mondo, vogliono la sostanziale immutabilità dell’immagine del gruppo; il che garantisce loro una solida sicurezza commerciale.
Sia chiaro, non mi interessa di fare valutazioni riguardo questa scelta, ovvero la sostanziale uniformità (coerenza?) espressa dai Rolling nel loro lungo, sterminato finale di carriera. Ci sono incrollabili estimatori che chiedono al gruppo solo quello che hanno da sempre avuto, e storcerebbero il naso a qualsiasi svolta; come un amante della sana, familiare cucina casalinga detesta le pietanze bizzarre, leccate, da nouvelle cuisine. Questo posso capirlo, e lo rispetto.
Mi interessa però tornare indietro a quegli anni in cui “sperimentare” era il verbo che regolava il rock, in cui i gruppi, voracemente cercavano, tracciavano vie nuove, osavano. E in quel contesto si inquadrò perfettamente quella “negletta” produzione dei Rolling.
Va detto che gli Stones vissero l’evoluzione del suono e la rivoluzione psichedelica sempre un po’ di riflesso, quasi obbligati a farlo, palesando qua e là un certo affanno. Lennon, impietosamente, diceva che « Gli Stones fanno qualunque cosa facciano i Beatles, ma sei mesi dopo. »
Già dall’anno precedente era apparso evidente, in brani come Lady Jane o As Tears Go By, il tentativo di “rispondere” a Yesterday, di dimostrare di saper scrivere anche ballads, di sapere usare gli archi e non solo chitarre col fuzz. Così come il bellissimo sound di Paint It Black si allineava (tentativo certo riuscito in pieno) alla svolta sitar-e-oriente che stava prendendo piede.
E comunque è innegabile che, quando la ricerca d’avanguardia si fece pressante, su quel terreno che non era loro congeniale i Rolling si trovarono a rincorrere non solo i “cugini”, ma anche i Beach Boys, i Pentangle, i Pink Floyd e i vari gruppi della scena Underground.
Certamente il loro album più ambizioso in quel contesto, Their Satanic Majesties Request, che all’uscita la critica Inglese definì rubbish (mondezza), presenta momenti imbarazzanti, autocompiacimento acritico: Watts racconta di come essi registrassero qualunque cosa venisse loro in testa, senza una direzione precisa, privi di un controllo da parte di un produttore che imponesse freni e tagli, nel momento critico in cui Andrew Loog Oldham li lasciò a se stessi.
Richards commenta, con un certo imbarazzo « Dopo Sgt. Pepper’s l’idea era di essere ancora più assurdi …ma eravamo proprio fuori. »
Un discorso a parte va fatto per Brian Jones, che si beava nell’immagine di “biondo ragazzo meraviglia”, di folletto pluristrumentista; anche perché era per lui l’unica possibilità di ritagliarsi spazio in un gruppo di cui all’inizio si sentiva il leader, e dove aveva finito per ritrovarsi in posizione marginale.
Inoltre Brian frequentava Harrison e Lennon (che gli fece ascoltare in anteprima Tomorrow Never Knows, forse traumatizzandolo, ma dandogli un enorme stimolo) e più degli altri Stones era interessato all’evoluzione della scena pop-culturale londinese.
C’è chi sostiene che suonasse tanti strumenti senza saperne suonare nemmeno uno bene, e lo stesso Charlie Watts di lui disse, sconsolato: « Brian non visse abbastanza per fare tutto ciò di cui aveva parlato o che pensava di fare. Non so comunque se avrebbe mai potuto realizzare qualcosa. »
Keith rincara la dose: « Brian non sapeva scrivere canzoni; voleva essere diverso da tutti noi, ma non sapeva chi voleva essere ». E Mick: « Era un notevole dilettante ».
Come vedete, anche riguardo la figura “emblematica” di quel periodo, c’è una sorta di epurazione, forse anche desiderio di esorcizzare quel ricordo con un bel “Requiescat In Pace”. Allorché Brian, poco prima della morte, fu sostituito con Mick Taylor, un vero chitarrista, fu chiaro che gli Stones ne avrebbero guadagnato in professionalità. Ma fu altrettanto chiaro che l’epoca della loro pazza gioventù, della fantasia impudica rappresentata da Jones, del Circo della libertà sonora, era finita per sempre.
Tutto ciò ha un senso, e contribuisce a inquadrare quella produzione discografica nel contesto. Ma facciamo finta per un attimo che quelle canzoni esistano al di fuori del tempo, scordiamoci le influenze esterne, superiamo la discussione sull’effettiva convinzione che Mick, Keith e gli altri provavano nel partorire quel repertorio.
Ascoltando con orecchio vergine, sarà impossibile non percepire il fascino di quei brani, alcuni dei quali sarebbero potuti divenire degli hit senza tempo, se solo ci avessero creduto. Penso a Back Street Girl, a She smiled Sweetly, a Who’s been sleeping here? a The Lantern. Penso a Ruby Tuesday, la gemma della loro produzione “spuria”, che la leggenda vuole scritta da Jones/Richards (ma Keith e Mick fanno spallucce!)
Penso alla favolosa, ipnotica, travolgente We Love You, una sorta di All You Need Is Love del Lato Oscuro… penso a Something Happened to Me Yesterday e a On with the Show, certo mutuate dalla New Vaudeville Band e - in seconda battuta - dai Beatles, ma comunque spiritose, imbonitrici, accattivanti.
Godiamoci pienamente l’incoscienza allegra dei tanti colori che Brian infilava dentro, senza neanche padroneggiarli strumentalmente: il flauto dolce, la tromba, l’ukulele, la fisarmonica, il dulcimer, il vibrafono, il kazoo, il mellotron, persino il theremin.
E lasciamoci trasportare dall’irruenza dei brani più rock, Stones-ma-non-troppo, ovvero Connection, All Sold Out, Let’s spend The Night.
Lasciamo scivolare leggere Yesterday’s Paper, She’s a Rainbow, Dandelion.
Forse questo segmento della carriera degli Stones piace a chi in fondo non è un gran fan del gruppo, o a loro ha sempre preferito i Quattro di Liverpool (io sono uno di essi). Ma anche convinti Rollingstoniani hanno saputo e voluto capire la bellezza di quella che fu relegata a semplice parentesi.
Vorrei lasciar parlare Row Bowman, professore di musica alla York University di Toronto:
« La band sbocciò creativamente durante i giorni felici del ’66 e del primo ’67… un periodo incredibilmente fertile in cui le composizioni a base di riff e influenzate dal soul lasciarono il posto a una musica “pop” su una base melodica di grandissimo livello. »
(Poi, inopinatamente, gli stessi artefici dissero che quello era “il giornale di ieri”… e chi vuole più il giornale di ieri?)
Marzo 2007, Glauco Cartocci.
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